Tipo di progetto: mostre
CARTE DUEMILANOVE
Il peso del segno
Leggere, interpretare, ‘criticare’, compito arduo per chi non pratichi l’onorata professione (almeno in questo campo) ma si configuri piuttosto come un semplice visitatore di uno mostra d’arte. Eccomi di fronte a questi fogli non più bianchi a interrogarmi, a incantarmi, a riflettere.
L’impatto è forte, anche se non immediato richiede: slittamenti progressivi, come ogni piacere che si rispetti. Sento lo sapienza del tratto, dello (s)composizione, dei colori (anzitutto primari).
Mi interrogo fin dove Io ragione generi bellezza, e quanto il sonno ne minacci l’essenza.
Loro, mi dico, sono fatti dello stesso sostanza di cui sono fatti i sogni, mo anche di incubi.
Nel dormiveglia percepisco il caldo e il freddo, lo gioia e il dolore, la luce pulsante e la muta oscurità. Il reticolo del trotto nero li ancora e li eleva, si torce e si aggroviglia, li scandisce e li sedimenta come ammassi di rocce.
Percepisco il ricordo di un percorso, tanto più sensibile perché dentro ciascuno di noi (a caso do lascaux e altamira a chagall e schiele e bacon), patrimonio comune. O forse bisognerebbe dire matrimonio, in nome di una qui reiterata deamadre il cui grembo ci genera e ci accoglie anche nello pittura.
Altrettante tracce di un discorso amoroso che si fa materia e vita, animale, vegetale, minerale, un tutt’uno. Come un tutt’uno è lo conoscenza di oltre cinquant’anni che mi lego all’amico e al pittore e che queste visioni riassumono, perpetuano ed esaltano.
Lorenzo Pellizzari
IL PESO DEL SEGNO
La pittura come modo di stare al mondo. La pittura come modo di pensare. Talvolta parallelo al piano del reale e della vita reale, come per molti artisti “della domenica”. Così si definiva con sorridente ironia Giorgio Occoffer anni fa, dopo una vita di pensiero nella pittura, svolto a fianco della vita reale. Occupazione del tempo libero. Quello spazio libero che è poi il luogo autentico dell’esistenza di ognuno di noi. Così Occoffer ad un certo punto della vita, occupa di quello spazio libero anche lo spazio della vita reale. Torna in accademia e si mette a studiare con il linguaggio del disegno e della pittura.E’ un artista tenace e prolifico. Il suo lavoro va apprezzato in sequenza. Come se la materia liquida che diluisce e dilata il segno di ogni immagine “sbavasse” fuori dai confini delle carte, sino ad avvolgerci nel lavorio mentale dell’artista, nello sguardo sul mondo del pittore.
Occoffer comincia a pensare con la pittura nelle immagini della città: periferie, treni, case, luoghi e non luoghi della scena urbana, paesaggi che un po’ alla volta si fanno scena delle avventure del segno. Nel tempo le figure si sciolgono dal legame con la rappresentazione del reale, si rarefanno o si condensano, quasi inevitabilmente, nel percorso che porta il segno a prendere il sopravvento sulla realtà, nel territorio infinito dell’astrazione. Mi sembra quella la fase di studio, il momento nella formazione dell’artista in cui egli approfondendo di prova in prova le potenzialità del segno, ne viene posseduto e dominato, fa fatica a controllarlo, viene trascinato nelle direzioni che conducono verso visioni sconosciute. Nuove come rivelazioni. Nella storia della pittura moderna ò il momento dell’automatismo e della scrittura automatica, codificata dai surrealisti e da una parte degli astrattisti. Oggi, l’esperienza dell’automatismo è la nuova accademia, percorso obbligato, quasi canone per il pittore che voglia appropriarsi del potere del segno, senza cadere vittima della fascinazione espressionista e narcisista del proprio sé. Il segno si “introverte”, va naturalmente “all’interno”, trascina l’artista nel gorgo dell’anima, inganna con la seduzione dell’autobiografia…pochi ne emergono salvi! Pochi riescono ad “estrovertere” il segno e trasformarlo nuovamente in sguardo comunicante con il mondo, con l’altro.
E’ questo il discrimine tra l’ “artista”e l’ “artista della domenica”. Il primo parla per l’altro, con l’altro. II secondo parla di sé e per sé. Attraverso ripetute prove, l’artista prende possesso del segno o , meglio, “sta alla pari” con il segno nel suo farsi. Occoffer ci parla da artista. Ora il reale riemerge in una forma nuova e inedita. Nelle carte del 2009, il nucleo immaginifico che emerge è quello del corpo e della figura anatomica. Il tema per eccellenza degli studi accademici! La tecnica di questi disegni è l’acquerello, con rari interventi di tempera e matita acquerellata o più raramente, acrilico su carta. E’ una tecnica rapida e difficile, perché si misura con l’imprendibilità dell’acqua. Occoffer lascia andare il segno sulla superficie e poi stende l’acqua con il pennello piatto, controllando il farsi delle macchie , la dilatazione del colore liquido, le isole d’acqua, le trasparenze e gli addensamenti che formano i volumi, le ombre, gli sbafi, i rivoli. Il peso del segno trattiene o si sgretola lasciando tracimare la materia liquida, prima che la carta la trattenga e l’assorba, la solidifichi nella figura. La figura umana è inconscia ed emerge con la forza del modello. A volte in dettagli anatomici che si dilatano sino ad apparire paesaggi, echi dei paesaggi dai quali i primi lavori di Occoffer nascevano. In alti casi , a mio parere i più suggestivi ed inquietanti , emerge la figura accademica, la postura di un braccio sollevato sopra la testa e ripiegato dietro la nuca, che offre la figura allo sguardo che sa rintracciare l’esibizione della posa, nel groviglio del segno. Ma ancora colpisce come dal disegno automatico le suggestioni culturali dello sguardo si impongano a comporre scenari che affondano le loro radici in codici visivi acquisiti. In una serie di carte, in cui la composizione è più fitta e satura di colore, il segno compone campiture che trattengono aree di colore, richiamando le vetrate gotiche: dall’idea del corpo germoglia il canone dell’architettura e dall’architettura nuovamente, il paesaggio. Il segno nei lavori che Giorgio Occoffer ci presenta si è trasformato in sguardo.
Raffaella Pulejo
OPERE ESPOSTE
Precipitare nel segno, precipitare nel colore
Apparizione e nascita.
Dal vuoto e dal silenzio arriva la sconosciuta arte del portare in vita, se, con umiltà, si saprà ascoltare.
Nella struggente temerarietà della consapevolezza, le immagini di Occoffer raccontano di quel gomitolo di energia che tutto crea e tutto permea, di quella palla di fuoco e acqua che ci forma, ci quieta e ci divora per rimetterci in gioco, altro diventati; pezzi di trasformazione in atto, movimento dell’attimo, squarci d’eternità, fiammeggiante forza di alternanze continue, mai placate. Lui, come mare, è contenitore divino di forze arcaiche, ogni giorno buttate sulle ampie spiagge dall’alta marea, folla e follia, dolore e delirio dell’umano che vuole raccontarsi, che vuole raccontarsi, che vuole emergere dal tutto.
E nell’effimera bellezza che diventa notte per cercare luce nell’aurora, lui ci mostra corpi che irrompono dal vuoto, anime che si specchiano in un niente, incapaci di vedere altro che se stesse, muri infiniti e torri, barriere, confini di frontiere della nostra identità disintegrata, ponti abbattuti, mani allargate come un grido, imploranti un aiuto senza più voce, perché la voce, espressione dell’inesprimibile, invoca sempre comunione.
Occoffer ci ha parlato col rosso carminio del suo coraggio, col blu dei suoi vestiti di bambino, col verde della perduta patria di innocenza, col giallo della luce conosciuta.
Nel suo vedere oltre, nello sgomento del vero pellegrino, cercava compagni di resurrezione, amici pronti a sfidare la sorte di questa mortalità da riscattare.
Che abbiamo da dire a nostra discolpa?
Non è forse vero che troppo spesso lasciamo soli quelli che osano guardare dal precipizio?
Quanto è più facile diventare ciechi per non avere il coraggio di vedere e di disfarsi dei pregiudizi del senso comune contemporaneo. Quanto siamo pronti ad uscire da noi stessi per comprendere veramente l’altro?
Mai come nelle immagini di Occoffer l’altro è noi e noi siamo l’altro, confusi e separati e relegati, in continuo movimento e in continuo disfacimento, in una tensione, in una spinta verso la trascendenza, verso l’abbandono dei confini conosciuti. Quanto disorienta uno sforzo di semplicità! Siamo consapevoli di quel che ogni giorno continuiamo ad ignorare e dell’atroce dolore del finale?
In lui nessun rancore, nessun “ve l’avevo detto”, solo, ora, ci fa vedere quello che siamo diventati, segno e materia senza più colore.
Ci mostra rantolanti sul grigio dell’asfalto, sommersi dalle grida, devastati dal morbo creato da noi stessi.
Tutte le tenerezze del segno, tutte le curve di morbida ragazza, si sono trasformate in lame, frecce che noi stessi abbiamo acuminato.
Qualche volta urla ancora nel colore, la dolcezza ancora sembra osare, il segno ancora sembra cedere alla desiderata quiete, la speranza ancora si accende dentro il nero, ultimi e disperati tentativi di sfuggire alla mortale stretta dell’assenza.
Occoffer ci guarda, non ci abbandona, aspetta.
Patrizia Gioia
OPERE ESPOSTE
La visione prospettica, così come era stata teorizzata ed applicata nel Rinascimento, divenne metafora dell’uomo misura di tutte le cose.
Prima, il Cristianesimo e la sua arte avevano imposto una sorta di vulgata la cui caratteristica più evidente era appunto la perdita del centro prospettico, a favore di un ritmo lineare e ripetitivo. Di nuovo, la prospettiva, esasperata dalla magniloquenza, travolta dai venti soffianti tra le vesti di santi e di promossi all’ascesa celeste, verrà decisamente manipolata dagli artisti del Barocco, e in seguito sarà nuovamente messa in crisi dal linguaggio delle avanguardie, in particolare dal cubismo.
Giorgio Occoffer non smarrisce la prospettiva, piuttosto ne somma diverse, moltiplicando i punti di fuga e dando vita a visioni multiple, frantumate. Nelle sue opere, l’insieme di solidi tagliati e variamente disposti, e il ritmo ascensionale che sovente ne caratterizza il moto, creano una sensazione di sospensione, di attesa, osservata da occhi silenti.
L’uomo, che impone la malinconica sfericità del suo volto ai profili appuntiti di case, di palazzi e di fabbriche, tutte ugualmente anonime, tutte ugualmente mute, dichiara la sua posizione, marginale ma necessaria: la prospettiva, non già negata o rifiutata, ma moltiplicata, nega la centralità dell’uomo nel mondo – un mondo peraltro in disfacimento – a favore di una posizione a latere, quasi da testimone.
E nella capacità di farsi testimonianza è forse il valore peculiare dell’opera di Occoffer: l’artista, con pertinacia, ma con un accento mesto, quasi disperato, attesta le condizioni delle città in cui l’uomo vive: agglomerati impazziti e frenetici che paiono arrestarsi nel momento in cui un occhio testimone tenta di fissarne i profili; tutto ciò si fa testimonianza quindi dell’incapacità dell’uomo di vivere le città, e del cielo e della terra di farne i perimetri ultimi – un cielo che non è mai tale, quello di Occoffer, ma che sembra una sorta di riassunto di tutti i colori possibili.
Perché il colore è la cifra caratteristica di queste opere: una cromia ricca, ora raschiata, tesa fin quasi alla trasparenza, ora sfumata, arricchita di mescolanze e di incontri di tinte. Un colore che insegue le infinite sfumature presenti in natura, e che applicato ai solidi, ai volti, là dove ci aspetteremmo campiture piatte e pure, crea un effetto di straniamento, ed esplicita la dicotomia tra naturalismo ed astrazione presente in tutta la produzione recente di Occoffer. Ma il colore ha anche la funzione, laddove non giunge il disegno, di concludere l’opera, di fagocitare la linea dell’orizzonte e, in sostanza, di farsi sostituto del cielo, e della terra.
Conosciamo così i terreni franati che hanno generato le prospettive ultime, la rottura dei solidi, l’implosione degli edifici, calati in atmosfere pellucide, in una luce quasi irreale, albuminica, alborale, verrebbe da dire spettrale, di un cielo che risucchia una terra, e di una terra che si apre al cielo.
La perdita del centro prospettico recupera appieno il proprio valore narrativo, non già in funzione dell’annullamento dello spazio, bensì in funzione dell’esaltazione delle forze cosmiche e telluriche, e quindi dello spazio medesimo.
Ma l’opera di Occoffer è anche testimonianza del percorso dell’arte del Novecento: la produzione dell’artista, partita da paesaggi sironiani, ha poi generato geometriche e mondriane scansioni di piani, ed anche prove di sapore espressionista, sia nell’uso del colore – stridente e materico – sia nel recupero di una figurazione allucinata e contorta. Se nelle opere recenti si avverte ancora l’eco dei dettami geometrizzanti di Cézanne – “Trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono” – anche la straniante sospensione del tempo propria della grammatica metafisica è visibile, insieme ad un vortice di sapore futurista, in una sorta di omaggio, spinto fin quasi alla negazione, delle avanguardie.
Certo ogni testimonianza è perentoria, anche se più o meno necessaria di verifiche.
Quella di Occoffer – personale anche se raramente autobiografica – propone accumulazioni, angolazioni sospese in un caos siderale, nell’attesa che i piani si ricompongano, o che esplodano per sempre.
Gli uomini, nel frattempo, stanno a guardare.
Cinzia Bollino Bossi
OPERE ESPOSTE
Nell’armonia di un CAOS dove i frammenti vaganti tentano una ricomposizione logica, l’uomo è presente in attesa che tutto torni entro i codici di una forma dove si deve tornare a vivere. La tematica delle ultime opere di Giorgio Occoffer verte su questa lotta esistenziale e il pittore, lasciandomi libero di interpretare i suoi quadri, non so se condividerà la mia presunzione.
Ma che possono significare quegli “oggetti vaganti” che invadono cieli impossibili: frammenti di mondi?
Non so quanta serenità vi sia nella creatività del pittore, certo attraverso le sue opere si respira la speranza.
Infatti, ombra diafana nel turbinio delle cose, la figura dell’uomo è una presenza che recupera una valenza positiva al messaggio dell’artista.
E dopo aver cercato di interpretare la tematica, bisognerebbe parlare di pittura, cioè di forma, di metodo, di calligrafia (come se fosse un manoscritto) poiché anche il modo di dipingere deriva dalla personalità del pittore, appunto come la grafia.
Giorgio Occoffer si offre al giudizio con una pittura ordinata, sicura, sempre con colori alti, e quello che più interessa è la potenza espressiva nel suo insieme che si evince in ogni opera. Questa è anche una maturità che si raggiunge con anni di lavoro.
Antonio Carbé
OPERE ESPOSTE
Sarà perché Giorgio Occoffer l’ho meglio conosciuto per sale cinematografiche che per gallerie (che egli frequentava, più assiduamente di me, insieme al comune amico Paolo Naselli, un pittore che ci ha lasciato troppo presto), io lo assimilo, lo coniugo, lo vedo… al cinema.
E i suoi quadri, maturati nel corso di una ricerca ultratrentennale – mossa da influenze sironiane ma ben presto allontanatasi dalle “riprese in esterno” -, mi sembrano sempre singolari fotogrammi.
Vi si riflettono tensioni ideali e sottili angosce, vi si leggono momenti di disperazione e pause di serenità, vi si alternano astrazioni e concretezze legate dall’amore per la materia e per il colore, vi si colgono eco di un post-antico dai richiami più vari (un po’ di espressionismo, un po’ di cubismo, un po’ di costruttivismo…), amalgamati o rimossi da una visione personale, da una interpretazione sempre e giustamente “insoddisfatta”, da una modulazione irrequieta. Quindi, sono pittura, dentro e fuori dei canoni e delle regole.
Eppure il richiamo al cinema continua a suggestionarmi.
Ho sbagliato dicendo “fotogrammi”, dovrei dire sintesi ottiche e cinetiche.
Dovrei parlare di un obiettivo dalle lenti deformanti o sfaccettate al punto giusto per consentire effetti di accumulo, rifrazioni irreali della realtà. Dovrei riferirmi ad angolazioni forti, prese dall’alto e dal basso, di sbieco e di sguincio, dove il soggetto si esalta e si comprime, rende sempre conto di un alto-da-sé.
Dovrei parlare di piani-sequenze, non solo perché l’andamento è spesso regolare o ciclico, ma anche perché il quadro racchiude un percorso, la possibilità di leggervi una storia; o addirittura non chiude, e smargina, e prosegue idealmente oltre i limiti di quel piccolo schermo di tela che è pur sempre un dipinto.
Poi potrei aggiungere che il quadro muta di intensità e di valore a seconda di come si dispone lo spettatore, l’osservatore; del “posto” (anche in senso metaforico) che egli assume prima di esercitare la facoltà dello sguardo.
Ancora dovrei dire che qualche volta pare che il fermo-immagine consenta di cogliere nella sua aleatoria fisicità una dissolvenza incrociata: fra un prima e un poi, fra un essere e un voler essere, fra qualcosa che sfugge e qualcosa che imperiosamente prende ad affermarsi (il termine è volutamente ambiguo).
E, infine, non c’è cinema post-antico o, se vogliamo, post-classico che non faccia il suo bravo ricorso agli effetti, ai fumoni, alle luci spioventi, a quel tanto che gioca per rendere la visione (riprodotta) simulacro di visione: ebbene, Occoffer – perché negarlo? – non si sottrae a questa lucidità dell’espressione.
Ho toccato il fondo. So benissimo che la ricerca del pittore, di questo pittore, va oltre il mio tentativo di illustrarla, che bisogna scavare oltre le apparenze, che i segni vanno oltre le cose.
Ma da un critico cinematografico prestato a un’arte che viene prima della settima non potete aspettarvi di più.
Lorenzo Pellizzari
OPERE ESPOSTE
Chi ha conosciuto e seguito il Giorgio Occoffer di trent’anni fa, quando – giovanissimo pittore di vaga influenza sironiana – lavorava preferibilmente en plein air, studiando momenti e cogliendo tensioni delle periferie milanesi, resta ammirato ma non sorpreso, forse stupito ma non perplesso, nell’osservare, sintetizzato in questa mostra, il suo percorso, appunto trentennale. Occoffer ha condotto, lungo tutto questo periodo che è quasi una vita, una solitaria ricerca personale: di forme, di colori, di emozioni, di lancinanti o di rasserenanti memorie. Una ricerca apparentemente (o dichiaratamente) volta a conoscere in modi sempre nuovi e diversi la materia pittorica e il suo farsi sembiante; in realtà, una ricerca che costituisce un’articolata testimonianza del tempo trascorso – con il corredo di eventi, sensazioni, mutamenti di gusto e di visione – e soprattutto, un continuo, aperto dialogo con l’immaginario osservatorio ideale: un altro e non diverso da sé. La costanza della ricerca è anche una costanza della ragione: che non significa fredda lucidità o distaccata formulazione, ma – nel caso di Occoffer – anche una non contraddittoria costanza della fantasia, della sensibilità, magari dell’ossessione.
Il protagonista, sia pure schivo e tormentato, è lui: le opere sono altrettanti segnali per comprendere le tappe di un’esistenza non dissimile da quella di tanti altri di noi (“confessiamo di aver vissuto” potrebbe essere il nostro nerudiano motto), solo che lui è riuscito a fissarle e a concentrarle, ogni volta che ne sentiva l’esigenza, in un 50 x 70, o giù di lì.
Lorenzo Pellizzari
OPERE ESPOSTE
La periferia di GIORGIO OCCOFFER è qualcosa di vero, un piccolo mondo geograficamente limitato, come i cieli arrugginiti e le finestre soffocate, ma così denso di forze ed espressioni da sembrare un universo. Ci sono le grandi case popolari e le vecchie fabbriche, le catene di distillatori, i treni, le massicciate spoglie, i serbatoi; ci sono i cieli di pioggia, di freddo, di caldo, di temporale; le atmosfere diluite, impalpabili, polverose, paurose.
E ci sono gli uomini, incamminati per una strada muta e fredda (NATALE A LAMBRATE), o immobili in un’attesa solidale, densa di significati e di promesse (L’ATTESA), o che consumano seduti su una pietra la loro stanchezza, la loro aridità, il loro pianto (L’OPERAIO); gli uomini che si vedono e quelli che non si vedono, le centinaia e migliaia che abitano, lavorano, partono e arrivano nei limiti di questo mondo. I treni corrono sulle massicciate spoglie, portano via chi è stanco, chi è bruciato, chi è finito: molte volte si ha la tentazione di seguirli. I motivi, i colori, i sentimenti, le idee fanno parte di un’unica ricerca, che è poi ricerca di se stessi, delle proprie origini e del proprio futuro, un immettersi al di sopra delle ipocrisie, delle tentazioni, degli intellettualismi preconcetti in una vita attiva, cosciente, naturale, dove si lotti contro l’ingiustizia e la sofferenza e dove si esprima una forza fiduciosa, inarrestabile: la stessa forza che pare muoversi dalle sue fabbriche e dalle sue case. E base della ricerca è la volontà di dipingere per gli uomini, parlare di quanto li circonda, li assorbe, li distrugge o ne è distrutto. Il canto allora può diventare gioia, lirica felicità (amore del sole, dell’aria, della gente, come ne LE CASE DEI TRANVIERI) o può mutarsi in dolore – così come nei casi della vita – fondersi in colori cupi e immagini desolate. La sua pittura è una voce che si può ascoltare – e tutti possono ascoltare e comprendere – ma soprattutto è un atto di onestà, di sincerità.
Lorenzo Pellizzari
OPERE ESPOSTE
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