Precipitare nel segno, precipitare nel colore
Apparizione e nascita.
Dal vuoto e dal silenzio arriva la sconosciuta arte del portare in vita, se, con umiltà, si saprà ascoltare.
Nella struggente temerarietà della consapevolezza, le immagini di Occoffer raccontano di quel gomitolo di energia che tutto crea e tutto permea, di quella palla di fuoco e acqua che ci forma, ci quieta e ci divora per rimetterci in gioco, altro diventati; pezzi di trasformazione in atto, movimento dell’attimo, squarci d’eternità, fiammeggiante forza di alternanze continue, mai placate. Lui, come mare, è contenitore divino di forze arcaiche, ogni giorno buttate sulle ampie spiagge dall’alta marea, folla e follia, dolore e delirio dell’umano che vuole raccontarsi, che vuole raccontarsi, che vuole emergere dal tutto.
E nell’effimera bellezza che diventa notte per cercare luce nell’aurora, lui ci mostra corpi che irrompono dal vuoto, anime che si specchiano in un niente, incapaci di vedere altro che se stesse, muri infiniti e torri, barriere, confini di frontiere della nostra identità disintegrata, ponti abbattuti, mani allargate come un grido, imploranti un aiuto senza più voce, perché la voce, espressione dell’inesprimibile, invoca sempre comunione.
Occoffer ci ha parlato col rosso carminio del suo coraggio, col blu dei suoi vestiti di bambino, col verde della perduta patria di innocenza, col giallo della luce conosciuta.
Nel suo vedere oltre, nello sgomento del vero pellegrino, cercava compagni di resurrezione, amici pronti a sfidare la sorte di questa mortalità da riscattare.
Che abbiamo da dire a nostra discolpa?
Non è forse vero che troppo spesso lasciamo soli quelli che osano guardare dal precipizio?
Quanto è più facile diventare ciechi per non avere il coraggio di vedere e di disfarsi dei pregiudizi del senso comune contemporaneo. Quanto siamo pronti ad uscire da noi stessi per comprendere veramente l’altro?
Mai come nelle immagini di Occoffer l’altro è noi e noi siamo l’altro, confusi e separati e relegati, in continuo movimento e in continuo disfacimento, in una tensione, in una spinta verso la trascendenza, verso l’abbandono dei confini conosciuti. Quanto disorienta uno sforzo di semplicità! Siamo consapevoli di quel che ogni giorno continuiamo ad ignorare e dell’atroce dolore del finale?
In lui nessun rancore, nessun “ve l’avevo detto”, solo, ora, ci fa vedere quello che siamo diventati, segno e materia senza più colore.
Ci mostra rantolanti sul grigio dell’asfalto, sommersi dalle grida, devastati dal morbo creato da noi stessi.
Tutte le tenerezze del segno, tutte le curve di morbida ragazza, si sono trasformate in lame, frecce che noi stessi abbiamo acuminato.
Qualche volta urla ancora nel colore, la dolcezza ancora sembra osare, il segno ancora sembra cedere alla desiderata quiete, la speranza ancora si accende dentro il nero, ultimi e disperati tentativi di sfuggire alla mortale stretta dell’assenza.
Occoffer ci guarda, non ci abbandona, aspetta.
Patrizia Gioia
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