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Collettiva 2015 – Fortezza Priamar – Savona

Le Celle La luce

Otto celle per otto artisti nella Fortezza Priamàr

“Nelle carte di Giorgio Occoffer qualità, colore e gesto coesistono in una visione stratificata, a partire da una immagine fotografica cui l’artista sovrappone ora un segno grafico, ora una pittura luminosa, in una forte sintonia di elementi sovrapposti che caricano l’immagine di forza ed energia.”

Cristina Rossi

 

OPERE ESPOSTE

Personale 2014 – Galleria Scoglio di Quarto – Milano

Per questa mostra dedicata alle ricerche di Giorgio Occoffer è stato preso in considerazione il versante delle “carte digitali” con interventi disegnativi e pittorici che costituiscono l’aspetto dominante della sua attuale identità creativa.

Disegni a china, acquerelli, dipinti su tela (situazioni espressive che l’artista continua a frequentare simultaneamente) lasciano il campo all’invenzione delle grandi “carte digitali” in cui convergono – come un sottile esercizio stratigrafico- la qualità del segno e l’evocazione fantasmatica del colore.
Alle radici della visione di Occoffer sta la citazione figurale da un lato, e l’impulso gestuale dall’altro, un’armonica dialettica degli opposti che si prolunga nelle stratificazioni dell’immagine come memoria attiva del vissuto, sintesi di luoghi reali e virtuali che scaturiscono dal complesso esperimento delle forme.
Rispetto ai disegni su carta e ai dipinti su tela, nelle “carte digitali” il procedimento di costruzione dell’immagine si capovolge, invece di partire dalla superficie vuota l’operazione prende avvio da una stampa fotografica già definita e predisposta ad accogliere successivi interventi manuali, grafici e pittorici.
Tuttavia, nell’atto di fotografare in prima persona o di usare reperti fotografici estrapolati da rotocalchi e manifesti, è già presente una scelta creativa su cui Occoffer interviene fin dall’inizio, elaborando dal punto di vista del linguaggio digitale il processo di definizione dell’immagine.
Da questa fase preliminare, scatta un successivo intervento con il colore dipinto per garantire la sua molteplice trasformazione, in quanto la citazione iconografica dell’immagine computerizzata è ritenuta troppo meccanica per le finalità creative dell’artista, potrebbe infatti ridursi a un facile gioco combinatorio fine a se stesso. Occoffer desidera procedere sperimentando la continua riscoperta del colore in sé, non si appaga della piacevolezza cromatica esibita dal mezzo informatico, ha piuttosto bisogno di trasformare la rappresentazione strutturale ben oltre l’effetto meccanico del colore digitale.
Per intervenire sul pre-testo fotografico l’artista si serve di colori per il vetro molto trasparenti, crea zone intermedie affidate a diverse velature, con valenze luminose anche imprevedibili rispetto al progetto iniziale.
Attraverso l’uso di pastelli in bianco e nero Occoffer cerca contrasti e ambivalenze, sviluppa il rapporto tra il dentro e il fuori, stratifica valori prospettici complessi, trasmuta i piani compositivi preliminari per captare le tre dimensioni con soluzioni in grado di superare le due dimensioni della pittura.
Il punto di riferimento di ogni ricerca è la dimensione del possibile, il mistero che scaturisce dal viaggio attraverso le apparizioni del mondo sensibile, le inquiete fluttuazioni che spingono lo sguardo a confrontarsi con lo stupore generato dal magmatico fluire dei frammenti visibili e invisibili. L’immaginazione modifica i dati dell’esperienza per captare segreti che stanno oltre il conoscibile, ogni traccia è utile per seguire le contrastanti pulsioni del fare, a volte sono fotografie di fotografie, ritagli di fotografie selezionate, sovrapposte, reinventate per cercare congiunzioni di forme diverse.
E’ certo che l’intervento cromatico sull’immagine fotografica offre diversi livelli di mutazione, tutti necessari all’invenzione di nuovi orientamenti, infatti nel corso del lavoro recente si accentua fortemente un clima di destrutturazione dell’immagine affidato a continui depistamenti verso altre dimensioni.
La finalità è di stravolgere le icone fotografiche per cercare eventi anche casuali, l’imprevisto suggerisce tentazioni che si determinano nel divenire dell’opera, insorgenze iconiche sempre sottoposte al ritmo interiore e visionario.
Pur inseguendo impulsi trasversali e deviazioni strutturali, Occoffer è consapevole che esiste una babele talmente ampia d’immagini che è difficile esprimere qualcosa di nuovo. Tuttavia, è proprio su questa soglia affollata che l’artista coltiva tensioni figurali cercando il punto d’incontro sempre diverso tra fotografia e pittura, salvando sempre l’autonomia del suo essere pittore.
Il messaggio intenzionale delle “carte digitali” fa leva su una riflessione immaginativa che vuole entrare nelle cose, captare una trasformazione in atto delle loro possibilità razionali ed emotive, sintonia di forze contrapposte che offre al lettore un campo percettivo di differenti impulsi. Trasformare le dinamiche della forma e del colore è la vera sfida che Occoffer sostiene sottraendosi al dominio pianificato dell’immagine per attivare ricordi eloquenti attraverso l’elaborazione dei nessi con il passato. Le immagini “dietro la stazione” sono legate alle amate memorie sironiane, le forme della “città perduta” evocano i tragici stravolgimenti della guerra, le opere dedicate a “Hiroshima” riconducono la mente ai dolorosi fantasmi dell’infanzia, le citazioni culturali (musica, teatro, fotografia, scultura) sono nutrimenti dell’anima, così come ogni altro reperto figurale è inscindibile dalle trame della memoria e dal fondo indistinto del vissuto.
Anche se il discorso sull’arte come memoria può essere una chiave di lettura ampia e sfuggente, nella ricerca di Occoffer essa diventa strumento per vivere il presente elaborando segni reali nel corpo di una dimensione spiazzante.
L’idea di “immagine inquieta” significa sospensione ed evocazione di molteplici visioni percepite dai sensi e dilatate dal fluire delle loro vibrazioni mentali: “l’inquietudine, la mobilità, l’ambiguità dell’immagine – ha scritto l’artista- è fatta nostra nell’affascinante divenire della sua casualità” .
Le opere di questa mostra rivelano un pensiero totale che Occoffer esprime con la convinzione che solo proiettandosi fuori dai perimetri della coscienza si può recuperare il valore primario del fare arte, rivelazione di un’ebbrezza immaginativa capace di dar forza e durata all’esperimento dell’atto creativo.

Claudio Cerritelli

 

OPERE ESPOSTE

Personale 2010 – Associazione Sassetti Cultura – Milano

CARTE DUEMILANOVE
Il peso del segno

Leggere, interpretare, ‘criticare’, compito arduo per chi non pratichi l’onorata professione (almeno in questo campo) ma si configuri piuttosto come un semplice visitatore di uno mostra d’arte. Eccomi di fronte a questi fogli non più bianchi a interrogarmi, a incantarmi, a riflettere.

L’impatto è forte, anche se non immediato richiede: slittamenti progressivi, come ogni piacere che si rispetti. Sento lo sapienza del tratto, dello (s)composizione, dei colori (anzitutto primari).

Mi interrogo fin dove Io ragione generi bellezza, e quanto il sonno ne minacci l’essenza.

Loro, mi dico, sono fatti dello stesso sostanza di cui sono fatti i sogni, mo anche di incubi.

Nel dormiveglia percepisco il caldo e il freddo, lo gioia e il dolore, la luce pulsante e la muta oscurità. Il reticolo del trotto nero li ancora e li eleva, si torce e si aggroviglia, li scandisce e li sedimenta come ammassi di rocce.

Percepisco il ricordo di un percorso, tanto più sensibile perché dentro ciascuno di noi (a caso do lascaux e altamira a chagall e schiele e bacon), patrimonio comune. O forse bisognerebbe dire matrimonio, in nome di una qui reiterata deamadre il cui grembo ci genera e ci accoglie anche nello pittura.

Altrettante tracce di un discorso amoroso che si fa materia e vita, animale, vegetale, minerale, un tutt’uno. Come un tutt’uno è lo conoscenza di oltre cinquant’anni che mi lego all’amico e al pittore e che queste visioni riassumono, perpetuano ed esaltano.
Lorenzo Pellizzari


IL PESO DEL SEGNO
La pittura come modo di stare al mondo. La pittura come modo di pensare. Talvolta parallelo al piano del reale e della vita reale, come per molti artisti “della domenica”. Così si definiva con sorridente ironia Giorgio Occoffer anni fa, dopo una vita di pensiero nella pittura, svolto a fianco della vita reale. Occupazione del tempo libero. Quello spazio libero che è poi il luogo autentico dell’esistenza di ognuno di noi. Così Occoffer ad un certo punto della vita, occupa di quello spazio libero anche lo spazio della vita reale. Torna in accademia e si mette a studiare con il linguaggio del disegno e della pittura.E’ un artista tenace e prolifico. Il suo lavoro va apprezzato in sequenza. Come se la materia liquida che diluisce e dilata il segno di ogni immagine “sbavasse” fuori dai confini delle carte, sino ad avvolgerci nel lavorio mentale dell’artista, nello sguardo sul mondo del pittore.

Occoffer comincia a pensare con la pittura nelle immagini della città: periferie, treni, case, luoghi e non luoghi della scena urbana, paesaggi che un po’ alla volta si fanno scena delle avventure del segno. Nel tempo le figure si sciolgono dal legame con la rappresentazione del reale, si rarefanno o si condensano, quasi inevitabilmente, nel percorso che porta il segno a prendere il sopravvento sulla realtà, nel territorio infinito dell’astrazione. Mi sembra quella la fase di studio, il momento nella formazione dell’artista in cui egli approfondendo di prova in prova le potenzialità del segno, ne viene posseduto e dominato, fa fatica a controllarlo, viene trascinato nelle direzioni che conducono verso visioni sconosciute. Nuove come rivelazioni. Nella storia della pittura moderna ò il momento dell’automatismo e della scrittura automatica, codificata dai surrealisti e da una parte degli astrattisti. Oggi, l’esperienza dell’automatismo è la nuova accademia, percorso obbligato, quasi canone per il pittore che voglia appropriarsi del potere del segno, senza cadere vittima della fascinazione espressionista e narcisista del proprio sé. Il segno si “introverte”, va naturalmente “all’interno”, trascina l’artista nel gorgo dell’anima, inganna con la seduzione dell’autobiografia…pochi ne emergono salvi! Pochi riescono ad “estrovertere” il segno e trasformarlo nuovamente in sguardo comunicante con il mondo, con l’altro.

E’ questo il discrimine tra l’ “artista”e l’ “artista della domenica”. Il primo parla per l’altro, con l’altro. II secondo parla di sé e per sé. Attraverso ripetute prove, l’artista prende possesso del segno o , meglio, “sta alla pari” con il segno nel suo farsi. Occoffer ci parla da artista. Ora il reale riemerge in una forma nuova e inedita. Nelle carte del 2009, il nucleo immaginifico che emerge è quello del corpo e della figura anatomica. Il tema per eccellenza degli studi accademici! La tecnica di questi disegni è l’acquerello, con rari interventi di tempera e matita acquerellata o più raramente, acrilico su carta. E’ una tecnica rapida e difficile, perché si misura con l’imprendibilità dell’acqua. Occoffer lascia andare il segno sulla superficie e poi stende l’acqua con il pennello piatto, controllando il farsi delle macchie , la dilatazione del colore liquido, le isole d’acqua, le trasparenze e gli addensamenti che formano i volumi, le ombre, gli sbafi, i rivoli. Il peso del segno trattiene o si sgretola lasciando tracimare la materia liquida, prima che la carta la trattenga e l’assorba, la solidifichi nella figura. La figura umana è inconscia ed emerge con la forza del modello. A volte in dettagli anatomici che si dilatano sino ad apparire paesaggi, echi dei paesaggi dai quali i primi lavori di Occoffer nascevano. In alti casi , a mio parere i più suggestivi ed inquietanti , emerge la figura accademica, la postura di un braccio sollevato sopra la testa e ripiegato dietro la nuca, che offre la figura allo sguardo che sa rintracciare l’esibizione della posa, nel groviglio del segno. Ma ancora colpisce come dal disegno automatico le suggestioni culturali dello sguardo si impongano a comporre scenari che affondano le loro radici in codici visivi acquisiti. In una serie di carte, in cui la composizione è più fitta e satura di colore, il segno compone campiture che trattengono aree di colore, richiamando le vetrate gotiche: dall’idea del corpo germoglia il canone dell’architettura e dall’architettura nuovamente, il paesaggio. Il segno nei lavori che Giorgio Occoffer ci presenta si è trasformato in sguardo.

Raffaella Pulejo

 

 

OPERE ESPOSTE

Personale 2002 – Galleria Spazio Studio – Milano

Precipitare nel segno, precipitare nel colore 

Apparizione e nascita.
Dal vuoto e dal silenzio arriva la sconosciuta arte del portare in vita, se, con umiltà, si saprà ascoltare.

Nella struggente temerarietà della consapevolezza, le immagini di Occoffer raccontano di quel gomitolo di energia che tutto crea e tutto permea, di quella palla di fuoco e acqua che ci forma, ci quieta e ci divora per rimetterci in gioco, altro diventati; pezzi di trasformazione in atto, movimento dell’attimo, squarci d’eternità, fiammeggiante forza di alternanze continue, mai placate. Lui, come mare, è contenitore divino di forze arcaiche, ogni giorno buttate sulle ampie spiagge dall’alta marea, folla e follia, dolore e delirio dell’umano che vuole raccontarsi, che vuole raccontarsi, che vuole emergere dal tutto.

E nell’effimera bellezza che diventa notte per cercare luce nell’aurora, lui ci mostra corpi che irrompono dal vuoto, anime che si specchiano in un niente, incapaci di vedere altro che se stesse, muri infiniti e torri, barriere, confini di frontiere della nostra identità disintegrata, ponti abbattuti, mani allargate come un grido, imploranti un aiuto senza più voce, perché la voce, espressione dell’inesprimibile, invoca sempre comunione.

Occoffer ci ha parlato col rosso carminio del suo coraggio, col blu dei suoi vestiti di bambino, col verde della perduta patria di innocenza, col giallo della luce conosciuta.
Nel suo vedere oltre, nello sgomento del vero pellegrino, cercava compagni di resurrezione, amici pronti a sfidare la sorte di questa mortalità da riscattare.

Che abbiamo da dire a nostra discolpa?
Non è forse vero che troppo spesso lasciamo soli quelli che osano guardare dal precipizio?
Quanto è più facile diventare ciechi per non avere il coraggio di vedere e di disfarsi dei pregiudizi del senso comune contemporaneo. Quanto siamo pronti ad uscire da noi stessi per comprendere veramente l’altro?

Mai come nelle immagini di Occoffer l’altro è noi e noi siamo l’altro, confusi e separati e relegati, in continuo movimento e in continuo disfacimento, in una tensione, in una spinta verso la trascendenza, verso l’abbandono dei confini conosciuti. Quanto disorienta uno sforzo di semplicità! Siamo consapevoli di quel che ogni giorno continuiamo ad ignorare e dell’atroce dolore del finale?

In lui nessun rancore, nessun “ve l’avevo detto”, solo, ora, ci fa vedere quello che siamo diventati, segno e materia senza più colore.
Ci mostra rantolanti sul grigio dell’asfalto, sommersi dalle grida, devastati dal morbo creato da noi stessi.
Tutte le tenerezze del segno, tutte le curve di morbida ragazza, si sono trasformate in lame, frecce che noi stessi abbiamo acuminato.
Qualche volta urla ancora nel colore, la dolcezza ancora sembra osare, il segno ancora sembra cedere alla desiderata quiete, la speranza ancora si accende dentro il nero, ultimi e disperati tentativi di sfuggire alla mortale stretta dell’assenza.

Occoffer ci guarda, non ci abbandona, aspetta.

Patrizia Gioia

 

OPERE ESPOSTE