La visione prospettica, così come era stata teorizzata ed applicata nel Rinascimento, divenne metafora dell’uomo misura di tutte le cose.
Prima, il Cristianesimo e la sua arte avevano imposto una sorta di vulgata la cui caratteristica più evidente era appunto la perdita del centro prospettico, a favore di un ritmo lineare e ripetitivo. Di nuovo, la prospettiva, esasperata dalla magniloquenza, travolta dai venti soffianti tra le vesti di santi e di promossi all’ascesa celeste, verrà decisamente manipolata dagli artisti del Barocco, e in seguito sarà nuovamente messa in crisi dal linguaggio delle avanguardie, in particolare dal cubismo.
Giorgio Occoffer non smarrisce la prospettiva, piuttosto ne somma diverse, moltiplicando i punti di fuga e dando vita a visioni multiple, frantumate. Nelle sue opere, l’insieme di solidi tagliati e variamente disposti, e il ritmo ascensionale che sovente ne caratterizza il moto, creano una sensazione di sospensione, di attesa, osservata da occhi silenti.
L’uomo, che impone la malinconica sfericità del suo volto ai profili appuntiti di case, di palazzi e di fabbriche, tutte ugualmente anonime, tutte ugualmente mute, dichiara la sua posizione, marginale ma necessaria: la prospettiva, non già negata o rifiutata, ma moltiplicata, nega la centralità dell’uomo nel mondo – un mondo peraltro in disfacimento – a favore di una posizione a latere, quasi da testimone.
E nella capacità di farsi testimonianza è forse il valore peculiare dell’opera di Occoffer: l’artista, con pertinacia, ma con un accento mesto, quasi disperato, attesta le condizioni delle città in cui l’uomo vive: agglomerati impazziti e frenetici che paiono arrestarsi nel momento in cui un occhio testimone tenta di fissarne i profili; tutto ciò si fa testimonianza quindi dell’incapacità dell’uomo di vivere le città, e del cielo e della terra di farne i perimetri ultimi – un cielo che non è mai tale, quello di Occoffer, ma che sembra una sorta di riassunto di tutti i colori possibili.
Perché il colore è la cifra caratteristica di queste opere: una cromia ricca, ora raschiata, tesa fin quasi alla trasparenza, ora sfumata, arricchita di mescolanze e di incontri di tinte. Un colore che insegue le infinite sfumature presenti in natura, e che applicato ai solidi, ai volti, là dove ci aspetteremmo campiture piatte e pure, crea un effetto di straniamento, ed esplicita la dicotomia tra naturalismo ed astrazione presente in tutta la produzione recente di Occoffer. Ma il colore ha anche la funzione, laddove non giunge il disegno, di concludere l’opera, di fagocitare la linea dell’orizzonte e, in sostanza, di farsi sostituto del cielo, e della terra.
Conosciamo così i terreni franati che hanno generato le prospettive ultime, la rottura dei solidi, l’implosione degli edifici, calati in atmosfere pellucide, in una luce quasi irreale, albuminica, alborale, verrebbe da dire spettrale, di un cielo che risucchia una terra, e di una terra che si apre al cielo.
La perdita del centro prospettico recupera appieno il proprio valore narrativo, non già in funzione dell’annullamento dello spazio, bensì in funzione dell’esaltazione delle forze cosmiche e telluriche, e quindi dello spazio medesimo.
Ma l’opera di Occoffer è anche testimonianza del percorso dell’arte del Novecento: la produzione dell’artista, partita da paesaggi sironiani, ha poi generato geometriche e mondriane scansioni di piani, ed anche prove di sapore espressionista, sia nell’uso del colore – stridente e materico – sia nel recupero di una figurazione allucinata e contorta. Se nelle opere recenti si avverte ancora l’eco dei dettami geometrizzanti di Cézanne – “Trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono” – anche la straniante sospensione del tempo propria della grammatica metafisica è visibile, insieme ad un vortice di sapore futurista, in una sorta di omaggio, spinto fin quasi alla negazione, delle avanguardie.
Certo ogni testimonianza è perentoria, anche se più o meno necessaria di verifiche.
Quella di Occoffer – personale anche se raramente autobiografica – propone accumulazioni, angolazioni sospese in un caos siderale, nell’attesa che i piani si ricompongano, o che esplodano per sempre.
Gli uomini, nel frattempo, stanno a guardare.
Cinzia Bollino Bossi
OPERE ESPOSTE