Giorgio Occoffer

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Personale 2018 – Banca Intermobiliare – Milano

CARTE DIGITALI, COLORI SENSORIALI

 

Continua nel recente ciclo di “carte digitali” la ricerca che Giorgio

Occoffer sta conducendo in questi anni di esplorazione segnico-cromatica intorno al valore fantasmatico dell’immagine, campo di stratigrafiche immersioni nella memoria attiva del vissuto.

Le fonti della visione sono sempre riconducibili alle citazioni figurali che l’artista seleziona dall’ampio repertorio di immagini prese a prestito da diversi contesti della comunicazione: luoghi, situazioni e personaggi affiorano come reperti immaginativi che nutrono le molteplici fantasie della pittura.

Il procedimento di elaborazione dell’immagine si avvale di una stampa fotografica (rotocalco, manifesto, foto autografa) predisposta ad accogliere interventi grafici che costituiscono lo stile di Occoffer, lo spazio d’azione delle sue originali permutazioni visive.

L’icona computerizzata è la base preliminare su cui l’artista interviene per modificare l’aspetto meccanico dell’immagine digitale attraverso la sensibilità dell’atto manuale, irrinunciabile dimensione che genera un’avvolgente sedimentazione di umori cromatici.

Le forme originarie sono trasfigurate con ampie velature di colore, lievi vibrazioni segniche, trasmutazioni luminose capaci di alterare la percezione dell’immagine suscitando nuovi affioramenti del visibile.

Con l’uso di pastelli a olio Occoffer entra in sintonia con una diversa identità delle forme, esse emanano risonanze e ambivalenze che giocano sul confine tra la riconoscibilità e occultamento.

Velare alcune parti dell’originaria struttura iconica significa infatti rivelare altre sembianze attraverso passaggi sorprendenti tra il dentro e il fuori, vuol dire indagare il fluire del colore attraverso un processo di decodificazione che corrisponde al divenire del suo volto apparente.

L’intenzione di Occoffer è di dialogare con la sfera del possibile, cercando congiunzioni di forme diverse, slittamenti tra differenti livelli strutturali, orientamenti e depistamenti che non seguono un racconto logico, piuttosto captano il senso del suo imprevedibile fluttuare tra opposte tentazioni, tra riferimenti reali e atmosfere visionarie.

Nel campo visivo di ogni opera entrano situazioni anche casuali, tuttavia sottoposte al controllo dell’atto creativo che tiene in equilibrio il rapporto tra frammento fotografico e intervento cromatico.

Lo sguardo di Occoffer entra nelle latitudini della memoria inventando percorsi immaginativi che si dipanano sulla soglia del futuro, in tal senso mescola le fonti storiche ai flussi del presente, i ricordi dell’infanzia alle ansie della maturità, polarità dello stesso desiderio di trasfigurare l’orizzonte sospeso dei significati inafferrabili.

Talvolta, l’artista esalta le forme del corpo seguendo impulsi disgreganti, traiettorie trasversali e deviazioni dal canone rappresentativo, in sostanza si confronta con la forma e l’informe, contamina per esempio la figura mitologica del discobolo e la raffronta con l’inquietudine agonistica della vita contemporanea.

In altri casi, Occoffer preferisce cogliere le sintonie tra luoghi lontani nel tempo suggerendo connessioni tra i ricordi racchiusi nel labirinto della mente e gli euforici artifici dei linguaggi attuali.

Il foglio di bordo del viaggio che il padre intraprese verso gli Stati Uniti diventa una mappa immaginaria per avventurarsi oltre le coordinate del tempo, attraverso variazioni cromatiche che suggellano la necessità del continuo movimento, soprattutto il bisogno di rigenerare perdute ebbrezze. I tratteggi del pastello s’insinuano nei dettagli più reconditi dell’immagine digitale stravolgendola con effetti anche surreali, nel senso che il colore rivela mentre copre, suscita immagini che prima non erano presenti, sollecita le ambivalenze dell’inconscio, non a caso le opere dedicate a “Hiroshima” evocano i dolorosi fantasmi della storia come ferite ancora presenti. Lo sguardo macroscopico non perde mai di vista le minime presenze che si annidano nel caos delle apparizioni, del resto tutte le citazioni che Occoffer mette in gioco richiedono fervori cromatici in grado di sorprendere le attese del lettore.

Tra i colori attivi in queste carte sensoriali recitano un ruolo persistente il rosso e il verde, il blu e l’azzurro, il giallo e l’arancio, valenze sempre disposte a contaminarsi con opposte tensioni luminose.

Segni e colori si aggrovigliano, si addensano e si dissolvono nella stessa trama, soprattutto nelle carte più recenti si avverte una maggiore libertà d’azione, le linee sono tracciate da un punto all’altro dello spazio come scariche di luce incontenibile e filante. Così l’immagine scatta oltre sè stessa alludendo sia alla sfera tecnologica sia alla trasfigurazione cosmica, e lo fa alimentando lo stupore dell’osservatore di fronte alle metamorfosi figurali che Occoffer fissa negli umori controversi delle grandi carte presenti in questa esposizione, immagini da leggere come pagine di vita vissuta nel miraggio interminabile della pittura.

Claudio Cerrittelli

Personale 2017 Galleria Montefeltro – Urbania

5 agosto – 20 agosto 2017
Galleria Montefeltro
Corso Vittorio Emanuele 25
Urbania (PU)

 

Non per caso l’arco spazio/tempo si dispiega su queste dodici tavole e un orologio interno ne scandisce pulsioni ed emozioni lungo una giornata immaginaria, giornata che somma natura e accadimenti, moti e umori, slanci e sconfitte, una giornata piena che alfine la notte accoglie con i nostri sogni. È una piccola vita racchiusa nel suo bozzolo con queste tavole ad interrogarmi, ad interrogarci sulla loro capacità di mostrare immagini dove l’aspetto visivo, retinico, dà ampio spazio al mistero, all’ignoto,
alla scoperta del nostro mondo insondato e onirico.

Giorgio Occoffer

Personale – 2016 – Galleria Montefeltro – Urbania

 

6 agosto – 20 agosto 2016
Galleria Montefeltro
Corso Vittorio Emanuele 25
Urbania (PU)

 

(…) Eccomi di fronte a questi fogli non più bianchi a interrogarmi, a incantarmi, a riflettere. L’impatto è forte, anche se non immediato richiede: slittamenti progressivi, come ogni piacere che si rispetti.
Sento la sapienza del tratto, della (s)composizione, dei colori (anzitutto primari).
Mi interrogo fin dove la ragione generi bellezza, e quanto il sonno ne minacci l’essenza. Loro, mi dico, sono fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, ma anche gli incubi. Nel dormiveglia percepisco il caldo e il fred­do, la Gioia e il dolore, la luce pulsante la muta oscurità.
Il reticolo del tratto nero li ancora e li eleva, si torce e si aggroviglia, li scandisce e li sedi­menta come ammassi di rocce.
Percepisco il ricordo di un percorso, tanto più sensibile perché dentro ognuno di noi (a caso da lascaux e Altamira a Chagall e Schiele e Bacon), patrimonio comune.
O forse bisognerebbe dire matrimonio, in nome di una qui reiterata dea madre il cui grembo ci genera e ci accoglie anche nella pittura.
Altrettante tracce di un discorso amoroso che si fa materia e vita, animale, vegetale, minerale, un tutt’uno. (…)

(Estratto dalla presentazione alla Personale del 2010 presso Associazione Sassetti Cultura Milano)
Lorenzo Pellizzari

 

“In tempi in cui il peso prevale sul segno, è bello che qualcuno faccia prevalere il segno sulla pesantezza dei tempi.”

Attilio Zanchi

 

 

Personale – 2016 – Galleria delle Arti – Cremona

5 maggio – 15 settembre 2016
Galleria delle Arti
Via Bonomelli, 8
Cremona

“(…) Alle radici della visione di Occoffer sta la citazione figurale da un lato, e l’impulso gestuale dall’altro, un’armonica dialettica degli opposti che si prolunga nelle stratificazioni dell’immagine come memoria attiva del vissuto, sintesi di luoghi reali e virtuali che scaturiscono dal complesso esperimento delle forme.

(…) Per intervenire sul pre-testo fotografico l’artista si serve di colori per il vetro molto trasparenti, crea zone intermedie affidate a diverse velature, con valenze luminose anche imprevedibili rispetto al progetto iniziale.
Attraverso l’uso di pastelli in bianco e nero Occoffer cerca contrasti e ambivalenze, sviluppa il rapporto tra il dentro e il fuori, stratifica valori prospettici complessi, trasmuta i piani compositivi preliminari per captare le tre dimensioni con soluzioni in grado di superare le due dimensioni della pittura.

(…) L’immaginazione modifica i dati dell’esperienza per captare segreti che stanno oltre il conoscibile, ogni traccia è utile per seguire le contrastanti pulsioni del fare, a volte sono fotografie di fotografie, ritagli di fotografie selezionate, sovrapposte, reinventate per cercare congiunzioni di forme diverse.

(…) Trasformare le dinamiche della forma e del colore è la vera sfida che Occoffer sostiene sottraendosi al dominio pianificato dell’immagine per attivare ricordi eloquenti attraverso l’elaborazione dei nessi con il passato. (…)”

(estratto dalla presentazione alla mostra del 2014 alla Galleria Scoglio di Quarto Milano)

Claudio Cerritelli

 

Personale – 2014 – Milano

L’immagine inquieta
via Ascanio Sforza, 3 – Milano

14 ottobre – 8 novembre 2014

Personale 2014 – Galleria Scoglio di Quarto – Milano

L’immagine inquieta
Sulle carte digitali di Giorgio Occoffer

Per questa mostra dedicata alle ricerche di Giorgio Occoffer è stato preso in considerazione il versante delle “carte digitali” con interventi disegnativi e pittorici che costituiscono l’aspetto dominante della sua attuale identità creativa.
Disegni a china, acquerelli, dipinti su tela (situazioni espressive che l’artista continua a frequentare simultaneamente) lasciano il campo all’invenzione delle grandi “carte digitali” in cui convergono – come un sottile esercizio stratigrafico- la qualità del segno e l’evocazione fantasmatica del colore.
Alle radici della visione di Occoffer sta la citazione figurale da un lato, e l’impulso gestuale dall’altro, un’armonica dialettica degli opposti che si prolunga nelle stratificazioni dell’immagine come memoria attiva del vissuto, sintesi di luoghi reali e virtuali che scaturiscono dal complesso esperimento delle forme.
Rispetto ai disegni su carta e ai dipinti su tela, nelle “carte digitali” il procedimento di costruzione dell’immagine si capovolge, invece di partire dalla superficie vuota l’operazione prende avvio da una stampa fotografica già definita e predisposta ad accogliere successivi interventi manuali, grafici e pittorici.
Tuttavia, nell’atto di fotografare in prima persona o di usare reperti fotografici estrapolati da rotocalchi e manifesti, è già presente una scelta creativa su cui Occoffer interviene fin dall’inizio, elaborando dal punto di vista del linguaggio digitale il processo di definizione dell’immagine.
Da questa fase preliminare, scatta un successivo intervento con il colore dipinto per garantire la sua molteplice trasformazione, in quanto la citazione iconografica dell’immagine computerizzata è ritenuta troppo meccanica per le finalità creative dell’artista, potrebbe infatti ridursi a un facile gioco combinatorio fine a se stesso. Occoffer desidera procedere sperimentando la continua riscoperta del colore in sé, non si appaga della piacevolezza cromatica esibita dal mezzo informatico, ha piuttosto bisogno di trasformare la rappresentazione strutturale ben oltre l’effetto meccanico del colore digitale.
Per intervenire sul pre-testo fotografico l’artista si serve di colori per il vetro molto trasparenti, crea zone intermedie affidate a diverse velature, con valenze luminose anche imprevedibili rispetto al progetto iniziale.
Attraverso l’uso di pastelli in bianco e nero Occoffer cerca contrasti e ambivalenze, sviluppa il rapporto tra il dentro e il fuori, stratifica valori prospettici complessi, trasmuta i piani compositivi preliminari per captare le tre dimensioni con soluzioni in grado di superare le due dimensioni della pittura.
Il punto di riferimento di ogni ricerca è la dimensione del possibile, il mistero che scaturisce dal viaggio attraverso le apparizioni del mondo sensibile, le inquiete fluttuazioni che spingono lo sguardo a confrontarsi con lo stupore generato dal magmatico fluire dei frammenti visibili e invisibili. L’immaginazione modifica i dati dell’esperienza per captare segreti che stanno oltre il conoscibile, ogni traccia è utile per seguire le contrastanti pulsioni del fare, a volte sono fotografie di fotografie, ritagli di fotografie selezionate, sovrapposte, reinventate per cercare congiunzioni di forme diverse.
E’ certo che l’intervento cromatico sull’immagine fotografica offre diversi livelli di mutazione, tutti necessari all’invenzione di nuovi orientamenti, infatti nel corso del lavoro recente si accentua fortemente un clima di destrutturazione dell’immagine affidato a continui depistamenti verso altre dimensioni.
La finalità è di stravolgere le icone fotografiche per cercare eventi anche casuali, l’imprevisto suggerisce tentazioni che si determinano nel divenire dell’opera, insorgenze iconiche sempre sottoposte al ritmo interiore e visionario.
Pur inseguendo impulsi trasversali e deviazioni strutturali, Occoffer è consapevole che esiste una babele talmente ampia d’immagini che è difficile esprimere qualcosa di nuovo. Tuttavia, è proprio su questa soglia affollata che l’artista coltiva tensioni figurali cercando il punto d’incontro sempre diverso tra fotografia e pittura, salvando sempre l’autonomia del suo essere pittore.
Il messaggio intenzionale delle “carte digitali” fa leva su una riflessione immaginativa che vuole entrare nelle cose, captare una trasformazione in atto delle loro possibilità razionali ed emotive, sintonia di forze contrapposte che offre al lettore un campo percettivo di differenti impulsi. Trasformare le dinamiche della forma e del colore è la vera sfida che Occoffer sostiene sottraendosi al dominio pianificato dell’immagine per attivare ricordi eloquenti attraverso l’elaborazione dei nessi con il passato. Le immagini “dietro la stazione” sono legate alle amate memorie sironiane, le forme della “città perduta” evocano i tragici stravolgimenti della guerra, le opere dedicate a “Hiroshima” riconducono la mente ai dolorosi fantasmi dell’infanzia, le citazioni culturali (musica, teatro, fotografia, scultura) sono nutrimenti dell’anima, così come ogni altro reperto figurale è inscindibile dalle trame della memoria e dal fondo indistinto del vissuto.
Anche se il discorso sull’arte come memoria può essere una chiave di lettura ampia e sfuggente, nella ricerca di Occoffer essa diventa strumento per vivere il presente elaborando segni reali nel corpo di una dimensione spiazzante.
L’idea di “immagine inquieta” significa sospensione ed evocazione di molteplici visioni percepite dai sensi e dilatate dal fluire delle loro vibrazioni mentali: “l’inquietudine, la mobilità, l’ambiguità dell’immagine – ha scritto l’artista- è fatta nostra nell’affascinante divenire della sua casualità” .
Le opere di questa mostra rivelano un pensiero totale che Occoffer esprime con la convinzione che solo proiettandosi fuori dai perimetri della coscienza si può recuperare il valore primario del fare arte, rivelazione di un’ebbrezza immaginativa capace di dar forza e durata all’esperimento dell’atto creativo.
Claudio Cerritelli

Personale – 2010 – Milano

CARTE DUEMILANOVE
Il peso del segno

Via Volturno, 35 Milano
Sassetti Cultura

Personale 2010 – Associazione Sassetti Cultura – Milano

GIORGIO OCCOFFER

Leggere, interpretare, ‘criticare’, compito arduo per chi non pratichi l’onorata professione (almeno in questo campo) ma si configuri piuttosto come un semplice visitatore di uno mostra d’arte. Eccomi di fronte a questi fogli non più bianchi a interrogarmi, a incantarmi, a riflettere.

L’impatto è forte, anche se non immediato richiede: slittamenti progressivi, come ogni piacere che si rispetti. Sento lo sapienza del tratto, dello (s)composizione, dei colori (anzitutto primari).

Mi interrogo fin dove Io ragione generi bellezza, e quanto il sonno ne minacci l’essenza.

Loro, mi dico, sono fatti dello stesso sostanza di cui sono fatti i sogni, mo anche di incubi.

Nel dormiveglia percepisco il caldo e il freddo, lo gioia e il dolore, la luce pulsante e la muta oscurità. Il reticolo del trotto nero li ancora e li eleva, si torce e si aggroviglia, li scandisce e li sedimenta come ammassi di rocce.

Percepisco il ricordo di un percorso, tanto più sensibile perché dentro ciascuno di noi (a caso do lascaux e altamira a chagall e schiele e bacon), patrimonio comune. O forse bisognerebbe dire matrimonio, in nome di una qui reiterata deamadre il cui grembo ci genera e ci accoglie anche nello pittura.

Altrettante tracce di un discorso amoroso che si fa materia e vita, animale, vegetale, minerale, un tutt’uno. Come un tutt’uno è lo conoscenza di oltre cinquant’anni che mi lego all’amico e al pittore e che queste visioni riassumono, perpetuano ed esaltano.
Lorenzo Pellizzari

 


GIORGIO OCCOFFER

IL PESO DEL SEGNO
La pittura come modo di stare al mondo. La pittura come modo di pensare. Talvolta parallelo al piano del reale e della vita reale, come per molti artisti “della domenica”. Così si definiva con sorridente ironia Giorgio Occoffer anni fa, dopo una vita di pensiero nella pittura, svolto a fianco della vita reale. Occupazione del tempo libero. Quello spazio libero che è poi il luogo autentico dell’esistenza di ognuno di noi. Così Occoffer ad un certo punto della vita, occupa di quello spazio libero anche lo spazio della vita reale. Torna in accademia e si mette a studiare con il linguaggio del disegno e della pittura.E’ un artista tenace e prolifico. Il suo lavoro va apprezzato in sequenza. Come se la materia liquida che diluisce e dilata il segno di ogni immagine “sbavasse” fuori dai confini delle carte, sino ad avvolgerci nel lavorio mentale dell’artista, nello sguardo sul mondo del pittore.

Occoffer comincia a pensare con la pittura nelle immagini della città: periferie, treni, case, luoghi e non luoghi della scena urbana, paesaggi che un po’ alla volta si fanno scena delle avventure del segno. Nel tempo le figure si sciolgono dal legame con la rappresentazione del reale, si rarefanno o si condensano, quasi inevitabilmente, nel percorso che porta il segno a prendere il sopravvento sulla realtà, nel territorio infinito dell’astrazione. Mi sembra quella la fase di studio, il momento nella formazione dell’artista in cui egli approfon-dendo di prova in prova le potenzialità del segno, ne viene posseduto e dominato, fa fatica a controllarlo, viene trascina-to nelle direzioni che conducono verso visioni sconosciute. Nuove come rivelazioni. Nella storia della pittura moderna ò il momento dell’automatismo e della scrittura automatica, codificata dai surrealisti e da una parte degli astrattisti. Oggi, l’esperienza dell’automatismo è la nuova accademia, percor-so obbligato, quasi canone per il pittore che voglia appro-priarsi del potere del segno, senza cadere vittima della fascinazione espressionista e narcisista del proprio sé. Il segno si “introverte”, va naturalmente “all’interno”, trascina l’artista nel gorgo dell’anima, inganna con la seduzione dcll’autobiografia…pochi ne emergono salvi! Pochi riescono ad “estrovertere” il segno e trasformarlo nuovamente in sguardo comunicante con il mondo, con l’altro.

 

E’ questo il discrimine tra l’ “artista”e l’ “artista della domenica”. Il primo parla per l’altro, con l’altro. II secondo parla di sé e per sé. Attraverso ripetute prove, l’artista prende possesso del segno o , meglio, “sta alla pari” con il segno nel suo farsi. Occoffer ci parla da artista. Ora il reale riemerge in una forma nuova e inedita. Nelle carte del 2009, il nucleo immaginifico che emerge è quello del corpo e della figura anatomica. Il tema per eccellenza degli studi accademici! La tecnica di questi disegni è l’acquerello, con rari interventi di tempera e matita acquerellata o più raramente, acrilico su carta. E’ una tecnica rapida e difficile, perché si misura con l’imprendibilità dell’acqua. Occoffer lascia andare il segno sulla superficie e poi stende l’acqua con il pennello piatto, controllando il farsi delle macchie , la dilatazione del colore liquido, le isole d’acqua, le trasparenze e gli addensamenti che formano i volumi, le ombre, gli sbafi, i rivoli. Il peso del segno trattiene o si sgretola lasciando tracimare la materia liquida, prima che la carta la trattenga e l’assorba, la solidifichi nella figura. La figura umana è inconscia ed emerge con la forza del modello. A volte in dettagli anatomici che si dilatano sino ad apparire paesaggi, echi dei paesaggi dai quali i primi lavori di Occof-fer nascevano. In alti casi , a mio parere i più suggestivi ed inquietanti , emerge la figura accademica, la postura di un braccio sollevato sopra la testa e ripiegato dietro la nuca, che offre la figura allo sguardo che sa rintracciare l’esibizione della posa, nel groviglio del segno. Ma ancora colpisce come dal disegno automatico le suggestioni culturali dello sguardo si impongano a comporre scenari che affondano le loro radici in codici visivi acquisiti. In una serie di carte, in cui la composizione è più fitta e satura di colore, il segno compone campitone che trattengono aree di colore, richiamando le vetrate gotiche: dall’idea del corpo germoglia il canone dell’architettura e dall’architettura nuovamente, il paesaggio. Il segno nei lavori che Giorgio Occoffer ci presenta si è trasformato in sguardo.
Raffaella Pulejo

Personale – 2002 – Milano

Precipitare nel segno, precipitare nel colore
SPAZIOSTUDIO
Via Lomazzo 13, Milano
9/12 Ottobre 2002

Personale 2002 – Galleria Spazio Studio – Milano

GIORGIO OCCOFFER

Apparizione e nascita.
Dal vuoto e dal silenzio arriva la sconosciuta arte del portare in vita, se, con umiltà, si saprà ascoltare.

Nella struggente temerarietà della consapevolezza, le immagini di Occoffer raccontano di quel gomitolo di energia che tutto crea e tutto permea, di quella palla di fuoco e acqua che ci forma, ci quieta e ci divora per rimetterci in gioco, altro diventati; pezzi di trasformazione in atto, movimento dell’attimo, squarci d’eternità, fiammeggiante forza di alternanze continue, mai placate. Lui, come mare, è contenitore divino di forze arcaiche, ogni giorno buttate sulle ampie spiagge dall’alta marea, folla e follia, dolore e delirio dell’umano che vuole raccontarsi, che vuole raccontarsi, che vuole emergere dal tutto.

E nell’effimera bellezza che diventa notte per cercare luce nell’aurora, lui ci mostra corpi che irrompono dal vuoto, anime che si specchiano in un niente, incapaci di vedere altro che se stesse, muri infiniti e torri, barriere, confini di frontiere della nostra identità disintegrata, ponti abbattuti, mani allargate come un grido, imploranti un aiuto senza più voce, perché la voce, espressione dell’inesprimibile, invoca sempre comunione.

Occoffer ci ha parlato col rosso carminio del suo coraggio, col blu dei suoi vestiti di bambino, col verde della perduta patria di innocenza, col giallo della luce conosciuta.
Nel suo vedere oltre, nello sgomento del vero pellegrino, cercava compagni di resurrezione, amici pronti a sfidare la sorte di questa mortalità da riscattare.

Che abbiamo da dire a nostra discolpa?
Non è forse vero che troppo spesso lasciamo soli quelli che osano guardare dal precipizio?
Quanto è più facile diventare ciechi per non avere il coraggio di vedere e di disfarsi dei pregiudizi del senso comune contemporaneo. Quanto siamo pronti ad uscire da noi stessi per comprendere veramente l’altro?

Mai come nelle immagini di Occoffer l’altro è noi e noi siamo l’altro, confusi e separati e relegati, in continuo movimento e in continuo disfacimento, in una tensione, in una spinta verso la trascendenza, verso l’abbandono dei confini conosciuti. Quanto disorienta uno sforzo di semplicità! Siamo consapevoli di quel che ogni giorno continuiamo ad ignorare e dell’atroce dolore del finale?

In lui nessun rancore, nessun “ve l’avevo detto”, solo, ora, ci fa vedere quello che siamo diventati, segno e materia senza più colore.
Ci mostra rantolanti sul grigio dell’asfalto, sommersi dalle grida, devastati dal morbo creato da noi stessi.
Tutte le tenerezze del segno, tutte le curve di morbida ragazza, si sono trasformate in lame, frecce che noi stessi abbiamo acuminato.
Qualche volta urla ancora nel colore, la dolcezza ancora sembra osare, il segno ancora sembra cedere alla desiderata quiete, la speranza ancora si accende dentro il nero, ultimi e disperati tentativi di sfuggire alla mortale stretta dell’assenza.

Occoffer ci guarda, non ci abbandona, aspetta.

Patrizia Gioia

Personale – 1999 – Milano

Associazione Sassetti Cultura
Via Volturno 35, Milano
18 Novembre 1 Dicembre1999

GIORGIO OCCOFFER

La visione prospettica, così come era stata teorizzata ed applicata nel Rinascimento, divenne metafora dell’uomo misura di tutte le cose.
Prima, il Cristianesimo e la sua arte avevano imposto una sorta di vulgata la cui caratteristica più evidente era appunto la perdita del centro prospettico, a favore di un ritmo lineare e ripetitivo. Di nuovo, la prospettiva, esasperata dalla magniloquenza, travolta dai venti soffianti tra le vesti di santi e di promossi all’ascesa celeste, verrà decisamente manipolata dagli artisti del Barocco, e in seguito sarà nuovamente messa in crisi dal linguaggio delle avanguardie, in particolare dal cubismo.
Giorgio Occoffer non smarrisce la prospettiva, piuttosto ne somma diverse, moltiplicando i punti di fuga e dando vita a visioni multiple, frantumate. Nelle sue opere, l’insieme di solidi tagliati e variamente disposti, e il ritmo ascensionale che sovente ne caratterizza il moto, creano una sensazione di sospensione, di attesa, osservata da occhi silenti.
L’uomo, che impone la malinconica sfericità del suo volto ai profili appuntiti di case, di palazzi e di fabbriche, tutte ugualmente anonime, tutte ugualmente mute, dichiara la sua posizione, marginale ma necessaria: la prospettiva, non già negata o rifiutata, ma moltiplicata, nega la centralità dell’uomo nel mondo – un mondo peraltro in disfacimento – a favore di una posizione a latere, quasi da testimone.
E nella capacità di farsi testimonianza è forse il valore peculiare dell’opera di Occoffer: l’artista, con pertinacia, ma con un accento mesto, quasi disperato, attesta le condizioni delle città in cui l’uomo vive: agglomerati impazziti e frenetici che paiono arrestarsi nel momento in cui un occhio testimone tenta di fissarne i profili; tutto ciò si fa testimonianza quindi dell’incapacità dell’uomo di vivere le città, e del cielo e della terra di farne i perimetri ultimi – un cielo che non è mai tale, quello di Occoffer, ma che sembra una sorta di riassunto di tutti i colori possibili.
Perché il colore è la cifra caratteristica di queste opere: una cromia ricca, ora raschiata, tesa fin quasi alla trasparenza, ora sfumata, arricchita di mescolanze e di incontri di tinte. Un colore che insegue le infinite sfumature presenti in natura, e che applicato ai solidi, ai volti, là dove ci aspetteremmo campiture piatte e pure, crea un effetto di straniamento, ed esplicita la dicotomia tra naturalismo ed astrazione presente in tutta la produzione recente di Occoffer. Ma il colore ha anche la funzione, laddove non giunge il disegno, di concludere l’opera, di fagocitare la linea dell’orizzonte e, in sostanza, di farsi sostituto del cielo, e della terra.
Conosciamo così i terreni franati che hanno generato le prospettive ultime, la rottura dei solidi, l’implosione degli edifici, calati in atmosfere pellucide, in una luce quasi irreale, albuminica, alborale, verrebbe da dire spettrale, di un cielo che risucchia una terra, e di una terra che si apre al cielo.
La perdita del centro prospettico recupera appieno il proprio valore narrativo, non già in funzione dell’annullamento dello spazio, bensì in funzione dell’esaltazione delle forze cosmiche e telluriche, e quindi dello spazio medesimo.
Ma l’opera di Occoffer è anche testimonianza del percorso dell’arte del Novecento: la produzione dell’artista, partita da paesaggi sironiani, ha poi generato geometriche e mondriane scansioni di piani, ed anche prove di sapore espressionista, sia nell’uso del colore – stridente e materico – sia nel recupero di una figurazione allucinata e contorta. Se nelle opere recenti si avverte ancora l’eco dei dettami geometrizzanti di Cézanne – “Trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono” – anche la straniante sospensione del tempo propria della grammatica metafisica è visibile, insieme ad un vortice di sapore futurista, in una sorta di omaggio, spinto fin quasi alla negazione, delle avanguardie.
Certo ogni testimonianza è perentoria, anche se più o meno necessaria di verifiche.
Quella di Occoffer – personale anche se raramente autobiografica – propone accumulazioni, angolazioni sospese in un caos siderale, nell’attesa che i piani si ricompongano, o che esplodano per sempre.
Gli uomini, nel frattempo, stanno a guardare.

Cinzia Bollino Bossi

Personale – 1995 – Milano

Galleria La Nuova Sfera
Via San Marco 16, Milano
21 Novembre 1995

GIORGIO OCCOFFER

Nell’armonia di un CAOS dove i frammenti vaganti tentano una ricomposizione logica, l’uomo è presente in attesa che tutto torni entro i codici di una forma dove si deve tornare a vivere. La tematica delle ultime opere di Giorgio Occoffer verte su questa lotta esistenziale e il pittore, lasciandomi libero di interpretare i suoi quadri, non so se condividerà la mia presunzione.
Ma che possono significare quegli “oggetti vaganti” che invadono cieli impossibili: frammenti di mondi?
Non so quanta serenità vi sia nella creatività del pittore, certo attraverso le sue opere si respira la speranza.
Infatti, ombra diafana nel turbinio delle cose, la figura dell’uomo è una presenza che recupera una valenza positiva al messaggio dell’artista.
E dopo aver cercato di interpretare lan tematica, bisognerebbe parlare di pittura, cioè di forma, di metodo, di calligrafia (come se fosse un manoscritto) poiché anche il modo di dipingere deriva dalla personalità del pittore, appunto come la grafia.
Giorgio Occoffer si offre al giudizio con una pittura ordinata, sicura, sempre con colori alti, e quello che più interessa è la potenza espressiva nel suo insieme che si evince in ogni opera. Questa è anche una maturità che si raggiunge con anni di lavoro.

Antonio Carbé

Personale – 1991 – Milano

Galleria La Nuova Sfera
Via San Marco 16, Milano
12 Novembre 1991

http://www.occoffer.com/portfolio/personale-1991/

GIORGIO OCCOFFER

Sarà perché Giorgio Occoffer l’ho meglio conosciuto per sale cinematografiche che per gallerie (che egli frequentava, più assiduamente di me, insieme al comune amico Paolo Naselli, un pittore che ci ha lasciato troppo presto), io lo assimilo, lo coniugo, lo vedo… al cinema.

E i suoi quadri, maturati nel corso di una ricerca ultratrentennale – mossa da influenze sironiane ma ben presto allontanatasi dalle “riprese in esterno” -, mi sembrano sempre singolari fotogrammi.
Vi si riflettono tensioni ideali e sottili angosce, vi si leggono momenti di disperazione e pause di serenità, vi si alternano astrazioni e concretezze legate dall’amore per la materia e per il colore, vi si colgono eco di un post-antico dai richiami più vari (un po’ di espressionismo, un po’ di cubismo, un po’ di costruttivismo…), amalgamati o rimossi da una visione personale, da una interpretazione sempre e giustamente “insoddisfatta”, da una modulazione irrequieta. Quindi, sono pittura, dentro e fuori dei canoni e delle regole.

Eppure il richiamo al cinema continua a suggestionarmi.

Ho sbagliato dicendo “fotogrammi”, dovrei dire sintesi ottiche e cinetiche.
Dovrei parlare di un obiettivo dalle lenti deformanti o sfaccettate al punto giusto per consentire effetti di accumulo, rifrazioni irreali della realtà. Dovrei riferirmi ad angolazioni forti, prese dall’alto e dal basso, di sbieco e di sguincio, dove il soggetto si esalta e si comprime, rende sempre conto di un alto-da-sé.

Dovrei parlare di piani-sequenze, non solo perché l’andamento è spesso regolare o ciclico, ma anche perché il quadro racchiude un percorso, la possibilità di leggervi una storia; o addirittura non chiude, e smargina, e prosegue idealmente oltre i limiti di quel piccolo schermo di tela che è pur sempre un dipinto.

Poi potrei aggiungere che il quadro muta di intensità e di valore a seconda di come si dispone lo spettatore, l’osservatore; del “posto” (anche in senso metaforico) che egli assume prima di esercitare la facoltà dello sguardo.

Ancora dovrei dire che qualche volta pare che il fermo-immagine consenta di cogliere nella sua aleatoria fisicità una dissolvenza incrociata: fra un prima e un poi, fra un essere e un voler essere, fra qualcosa che sfugge e qualcosa che imperiosamente prende ad affermarsi (il termine è volutamente ambiguo).

E, infine, non c’è cinema post-antico o, se vogliamo, post-classico che non faccia il suo bravo ricorso agli effetti, ai fumoni, alle luci spioventi, a quel tanto che gioca per rendere la visione (riprodotta) simulacro di visione: ebbene, Occoffer – perché negarlo? – non si sottrae a questa lucidità dell’espressione.
Ho toccato il fondo. So benissimo che la ricerca del pittore, di questo pittore, va oltre il mio tentativo di illustrarla, che bisogna scavare oltre le apparenze, che i segni vanno oltre le cose.
Ma da un critico cinematografico prestato a un’arte che viene prima della settima non potete aspettarvi di più.

Lorenzo Pellizzari